Fabrizio Di Ernesto

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Breve storia del nucleare italiano

Il rapporto tra l’Italia ed il nucleare inizia nel 1955 quando all’indomani della conferenza “Atomi per la pace” di Ginevra il nostro paese decide di investire in questa nuova tecnologia ed arriva ad avere sul proprio territorio tre impianti di prima generazione basati sulle tre più innovative tecnologie dell’epoca: i reattori di tipo BWR e PWR di origine statunitense e quello di tipo Magnox di origine britannica.

Il programma italiano è ambizioso ma porta anche a risultati molto importanti: nel 1966 infatti il nostro paese è il terzo produttore al mondo di energia nucleare dopo gli Usa e l’Inghilterra.

La prima centrale elettronucleare italiana venne realizzata a Latina, la costruzione fu ultimata nel maggio del 1963; otto mesi più tardi fu approntata quella di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, e nel 1965 quella di Trino, nel vercellese. Nel 1970 iniziò la costruzione di quella di Caorso, nel piacentino.

Nel 1975 avvenne il varo del primo Piano Energetico Nazionale (PEN) che prevedeva, fra le altre cose, un forte sviluppo della componente elettronucleare. All’inizio degli anni 80’, per la precisione nel 1982, iniziò la costruzione della centrale di Montalto di Castro, nel viterbese; inoltre fu pianificata una seconda centrale a Trino, la prima basata sull’allora nascente “Progetto Unificato Nucleare”, con due reattori nucleari ad acqua pressurizzata PWR da 950 MW di potenza elettrica netta ciascuno.

Dopo l’entusiasmo degli anni ’70 il progetto del nucleare italiano inizia a subire un brusco rallentamento. Nel 1982 l’impianto di Sessa Aurunca viene fermato per un guasto e, a seguito di valutazioni sull’antieconomicità delle riparazioni, viene spento anche se sarà l’incidente di Cernobyl, 1986, a fermare il programma italiano.

Nel 1987 infatti tre referendum portano gli italiani a dire no a questo tipo di energia anche se i quesiti in oggetto non vietavano in modo esplicito la costruzione di nuove centrali, né imponevano la chiusura di quelle esistenti o in fase di realizzazione, ma si limitavano ad abrogare i cosiddetti “oneri compensativi” spettanti agli enti locali e la norma che concedeva al Cipe, il potere di scelta dei siti anche se in accordo con i comuni interessati. Sull’onda emotiva però l’Italia decide di abbandonare il Progetto unificato nucleare.

Sarà poi il IV governo Berlusconi tra il 2005 ed il 2008 a tentare il rilancio del nucleare nel nostro paese ma un nuovo referendum, svoltosi nel 2011 appena tre mesi dopo l’incidente di Fukushima, conferma la contrarietà degli italiani a questo tipo di tecnologia.

Forti della decisione della Commissione europea ora il centrodestra, in primis il leghista Matteo Salvini, è tornata a ventilare la possibilità di rilanciare il nucleare nel nostro paese.

Una questione annosa: la gestione delle scorie nucleari

La creazione di energia nucleare ha come conseguenza la produzione di tutta una serie di scorie di cui non è previsto il riutilizzo. I rifiuti nucleari infatti emettendo radioattività, devono essere gestiti in maniera adeguata per evitare rischi per l’uomo e per l’ambiente. Esistono diverse categorie di rifiuti radioattivi, alle quali corrispondono diverse modalità di gestione, in base alla concentrazione di radionuclidi e del tempo in cui la radioattività decade.

In Italia, nonostante le poche centrali esistenti siano ormai dismesse da anni ancora non si è riusciti a trovare una soluzione soddisfacente a questo problema.

Nel nostro paese i rifiuti radioattivi finora prodotti sono custoditi in depositi temporanei che ne consentono la gestione in sicurezza e l’isolamento dall’ambiente. Tali rifiuti provengono dal pregresso esercizio e dallo smantellamento degli impianti nucleari ma anche dalle attività nel campo sanitario, industriale e della ricerca.

Il nostro paese attualmente ha poco meno di 100mila metri cubi di rifiuti da smaltire ma ancora non è stata individuata l’area visto che tutti i comuni coinvolti nel progetto preferiscono declinare.

Secondo la Sogin, la società pubblica incaricata dello smaltimento dei rifiuti per realizzare il Deposito Nazionale e il Parco Tecnologico, è previsto un investimento complessivo di circa 900 milioni di euro; sono necessari quattro anni per la sua realizzazione e, in base agli attuali piani, la sua entrata in esercizio dovrebbe avvenire entro il 2029.

I depositi sono di due tipi: di superficie o di profondità.

Quello di superficie è una struttura realizzata a livello del terreno o fino ad alcuni metri di profondità, al fine di provvedere alla sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività. Quello che sarà realizzato in Italia sarà di questo tipo. Attualmente quelli operativi in Europa sono quelli di el Cabril (Spagna), l’Aube (Francia), Dukovaný (Repubblica Ceca), Mochovce (Slovacchia) e quello di Drigg (Regno Unito). Altri due, in fase di realizzazione, sono quelli di Dessel (Belgio) e di Vrbina (Slovenia). Il deposito geologico di profondità è invece una struttura per la sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi a media e alta attività, realizzata nel sottosuolo a notevole profondità (di solito diverse centinaia di metri), in una formazione geologica stabile (argille, graniti, salgemma). Questo consente l’isolamento dei radionuclidi dall’ambiente per periodi molto lunghi (fino a centinaia di migliaia di anni). L’unico operativo di questo tipo è il WIPP (Waste Isolation Pilot Plant) a Carlsbad (New Mexico – USA). In Europa Svezia, Finlandia e Francia hanno già individuato il sito mentre Germania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Svizzera e Ungheria hanno già avviato il processo di localizzazione.

Tra cyber terrorismo e minacce convenzionali la sicurezza delle centrali nucleari è un tema delicato

Una delle grandi preoccupazioni che da sempre ha accompagnato il nucleare è quella legata alla sicurezza ed ai rischi a questa connessa. I due grandi incidenti del passato, Cernobyl nel 1986 e Fukushima nel 2011, da questo punto di vista rappresentano un monito perenne anche se negli ultimi anni sono aumentati anche i rischi legati a possibili attacchi terroristici, sia tradizionali sia legati al mondo cyber dato il sempre maggior utilizzo delle Intelligenze artificiali (AI) in questi impianti.

Le centrali nucleari vengono identificati come gli stabilimenti più sensibili dal punto di vista della sicurezza, classificati dalle normative nazionali come IC, mentre a livello sovrannazionale come infrastrutture critiche internazionali (ICI).

Ovviamente sono diversi i livelli di sicurezza impegnati in una centrale che coprono sia l’eventuale errore umano sia l’attacco esterno anche se va detto che proprio per ragioni di sicurezza la quantità di combustibile fissile presente in ogni momento in un reattore non è sufficiente ad autosostenere un’esplosione nucleare; anche nel caso si verificasse lo scenario peggiore, ovvero fusione del nocciolo con relativa esplosione attualmente la maggior parte delle centrali nucleari possiede un sistema di contenimento esterno, un enorme cupola di cemento, che impedirebbe la fuoriuscita di sostanze radioattive in pratica la soluzione adottata a Cernobyl con il tristemente famoso sarcofago.

Negli ultimi anni inoltre è aumentata sempre di più l’attenzione verso eventuali attacchi cyber tanto che il complesso insieme dei sistemi logici che assicurano il sicuro funzionamento di una centrale nucleare, devono appartenere a un sistema di tipo chiuso separato dal mondo web, utilizzando specifici dispositivi hardware di isolamento.

Altra difesa chiave, quale contrasto alle cosiddette minacce interne, è rappresentata dal severo controllo sull’uso dei device portatili (smartphone, tablet, notebook), utilizzati per interfacciarsi con le apparecchiature operanti all’interno dei siti atomici. Per fare un esempio riguardo i rischi connessi alla rete basti pensare che nel 2003 la centrale di David-Besse protetta da firewall è stata infettata dal virus Slammer introdotto nel sistema tramite il computer di un fornitore connesso attraverso un modem che ha permesso di violare la rete interna.

Per quanto concerne invece gli attacchi “più tradizionali” nel 2017, nella centrale nucleare francese di Cruas-Meysse, si sono introdotti una ventina di militanti di Greenpeace France scalando un edificio attaccato al reattore 4 ed alcuni di essi hanno lasciato le impronte delle mani sui muri dello stesso edificio per dimostrare la sua accessibilità e vulnerabilità di fronte a un eventuale attacco terroristico. Il bersaglio principale dell’azione dimostrativa degli attivisti di Greenpeace sono state le piscine di stoccaggio provvisorio del combustibile nucleare esausto, giudicate estremamente vulnerabili. Il gesto, puramente dimostrativo, ha però evidenziato la mancanza di sicurezza che avevano, all’epoca, le piscine di raffreddamento e che ha spinto le autorità francesi a rivedere i protocolli in materia.

Dalla Ue 300 milioni di euro per finanziare i nuovi impianti nucleari

Nonostante le forti perplessità dell’opinione pubblica Bruxelles ha deciso di inserire quella nucleare tra le energie “green” della nuova Europa, anche se a determinate condizioni “chiare e rigorose”. In base alla “Taxonomy Regulation” una centrale nucleare è riconosciuta fonte di energia pulita se ha un piano di sviluppo, fondi sufficienti e un luogo dove depositare i rifiuti radioattivi. Le nuove centrali nucleari saranno green solo se avranno ricevuto i permessi di costruzione prima del 2045. Inoltre gli impianti già esistenti dovranno rispettare la soglia massima di emissione di 100 gCO2e/kWh.

Lo scorso luglio la Commissione europea ha adottato il programma di lavoro Euratom 2021-2022, che attua il programma Euratom di ricerca e formazione 2021-2025. Il programma di lavoro delinea gli obiettivi e i settori tematici specifici, che riceveranno un finanziamento di 300 milioni di euro, anche se tali investimenti non sono finalizzati solo alla ricerca sulla fusione e nel miglioramento della sicurezza degli impianti ma anche per l’utilizzo sicuro della tecnologia nucleare per scopi diversi dalla produzione di energia, in primis in ambito medico.

Se Bruxelles punta rilanciare la produzione dell’energia nucleare ancora una volta l’Europa non riesce a parlare con una sola voce divisa tra i paesi che continuano ad investire e quelli che invece stanno dismettendo quelle esistenti; a guidare i due gruppi rispettivamente la Francia e la Germania.

In Italia il centrodestra favorevole

Per quanto riguarda il nostro paese le posizioni in merito al nucleare, mentre ancora si cerca di risolvere la questione legata allo smaltimento delle scorie di quelle dismesse, sono note da tempo con il centrodestra che sostiene questa energia mentre la sinistra ed i 5 Stelle si oppongono.

Oggi a destra è soprattutto la Lega a puntare sul nucleare green tanto che la Saltamartini ha definito la decisione della Commissione “importante soprattutto durante una crisi energetica come quella che stiamo vivendo e che ha prodotto l’aumento dei costi in bolletta per famiglie e imprese. In questo modo viene data la possibilità di investire nel nucleare pulito e sicuro di nuova generazione, azioni necessarie per arrivare anche ad una maggiore indipendenza energetica. Ora mi auguro che il Governo italiano si muova in questa direzione archiviando definitivamente i no ideologici della sinistra”.

Il governo invece tramite il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani ha ricordato: “abbiamo una legge, dopo due referendum, che stabilisce che non possiamo fare nuove installazioni nucleari. Questo è fuori discussione. Onestamente, come ministro tecnico, io non sosterrei oggi nel 2022 la costruzione di nuove centrali nucleari di seconda o terza generazione” pur chiosando “sono sicuro che in futuro sarà una valida soluzione lo sviluppo di piccoli reattori modulari di quarta generazione”.

A Berlino svolta green e chiusura degli impianti

Recentemente il ministro dell’Ambiente francese Berangere Abba ha ribadito che l’Eliseo prevede che i progetti per le sue nuove centrali nucleari saranno presentati intorno al 2023, con l’obiettivo di far entrare in funzione i reattori di nuova generazione nel 2035-37.

Da un punto di vista tecnico nuovi impianti dovrebbero essere dotati di reattori di tecnologia EPR2, cioè versioni migliorate dell’EPR dell’utility EDF, che ha registrato anni di ritardi e miliardi di euro di costi in eccesso presso le centrali appena completate o ancora in costruzione in Francia e Finlandia. EDF ha già inviato una proposta al governo per costruire sei reattori EPR2 per un costo totale di circa 50 miliardi di euro, riferisce Le Figaro.

Di parere diametralmente opposto le autorità tedesche che puntano forte sulle rinnovabili sacrificando per l’appunto quella prodotta dai reattori.

Proprio alla fine del 2021 la Germania ha spento definitivamente i reattori di tre delle sei centrali nucleari ancora attive nel paese nell’ambito del suo piano per il progressivo abbandono dell’energia nucleare mentre le restanti tre saranno spente entro la fine dell’anno rispettando l’impegno assunto dall’ex cancelliera tedesca Angela Merkel nel 2011, in seguito alle preoccupazioni emerse dopo il disastro di Fukushima, in Giappone quando si impegnò a ridurre progressivamente l’utilizzo dell’energia nucleare fin da subito e a spegnere tutte le proprie centrali nucleari entro il 2022.

Sempre in Germania, inoltre, sono già state raccolte oltre 300 mila firme contro la decisione della commissione europea di classificare l’energia nucleare come ecosostenibile. A prendere in consegna la lista, che vede unite organizzazioni ecologiste come Cimpact, Deutsche Umwelthilfe, e Greenpeace, la capogruppo dei verdi Ricarda Lang. Lo slogan dell’appello è: “No all’atomo e al gas” con il vicecancelliere Robert Habeck, ministro dell’economia e del Clima che ha ribadito che si tratta di un “grande errore” da parte di Bruxelles.

L’eterno ritorno del Nucleare che per la Ue diventa green

La decisione della Commissione europea di definire gas e nucleare utili alla transizione ecologica e di considerarle attività temporaneamente sostenibili ha rilanciato il dibattito sull’energia prodotta da centrali atomiche, complice anche il caro energia e la crisi ucraina che rischia di avere ripercussioni sull’approvvigionamento energetico del Vecchio continente; ora la decisione finale spetterà al Parlamento europeo ed al Consiglio Ue che entro sei mesi circa dovrebbe accettare o affossare la proposta.

Ma così come la Commissione si è divisa sul voto finale anche i paesi europei sul tema del nucleare non hanno una posizione univoca ma si muovono in ordine sparso. Ed anche nel resto del mondo la situazione è molto confusa visto che paesi come la Cina e la Russia vedono nella tecnologia nucleare un modo per aumentare oltre alla loro efficienza energetica anche il loro peso geopolitico mentre altri, ad esempio Turchia ed Egitto, un modo per acquisire importanza sullo scacchiere mondiale.

Attualmente a livello globale sono attivi oltre 440 reattori nucleari dislocati in 29 diversi paesi; un terzo di questi, 148 su 442, si trovano in Europa ospitati in 16 nazioni. A breve però il numero totale dovrebbe superare le 500 unità visto che sono oltre 60 quelle in via di realizzazione, ma appena 8 delle quali nel Vecchio continente, oltre ad una cinquantina progettate ma ancora in fase di studio.

La nazione che più di ogni altra sfrutta il nucleare per produrre energia sono gli Usa che da soli detengono 104 reattori, quasi il doppio della Francia che in questa particolare classifica si posiziona seconda con 58, più un’altra in via di realizzazione; di seguito il Canada con 54 e la Russia con 32 anche se Mosca ne sta costruendo altre 11 e l’azienda russa Rosatom è attiva in tutto il mondo in diverse collaborazioni bilaterali.

I reattori attivi hanno un’età media compresa fra 24 e 31 anni. Le centrali più vecchie, quelle di prima generazione, sono state ormai smantellate (ne restano in funzione una o due a scopo sperimentale) e tutte le centrali attualmente attive nel mondo sono di seconda generazione.

Nel 2016 la World nuclear association (Wna) tramite l’allora direttore generale Agneta Risinmg indicò l’obiettivo di produrre mille GW di energia entro il 2050, con un gigawatt equivalente a circa un reattore nucleare di medie dimensioni. Obiettivo che sulla carta potrebbe essere quasi raggiunto una volta che tutti gli impianti in via di realizzazione saranno ultimati, anche se da qui a 30 anni alcune di quelle attualmente operative saranno chiuse per raggiunti limiti di età, anche se Francia ed Usa hanno allungato la vita di alcune centrali.

Nonostante gli sforzi e gli auspici della Wna, e la voglia di molti paesi di rispondere al proprio fabbisogno energetico grazie a quella nucleare negli ultimi anni “il fascino del reattore” sembra aver perso molto appeal, tanto che utilizzando i dati della stessa Wna si nota come tra il 2011 ed il 2021 il numero dei reattori pianificati sia passato da 156 a 101 con i paesi intenzionati a dotarsi di tali impianti diminuiti da 48 a 42, tra questi ultimi va annoverata anche l’Italia in seguito al referendum sul tema svoltosi proprio nel 2011.

Da un punto di vista geopolitico risulta evidente il ruolo trainante di alcuni paesi asiatici (Cina, Corea del Sud, India) oltre a Russia e Pakistan che nel periodo considerato hanno messo in servizio complessivamente 50 nuovi impianti e ne mostrano altri 308 tra pianificati e proposti.

Altrettanto evidente è la novità rappresentata dai paesi dell’area medio orientale (Emirati arabi, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Turchia) a cui sono attribuiti 30 nuovi impianti tra pianificati e proposti oltre ai 2 già in funzione negli Emirati arabi.

‘Destra e sinistra analisi politica’

Intervista rilasciata all’amica Giovanna Canzano disponibile al seguente link

Non si muore di solo Mes. L’Ue al lavoro per altri trattati capestro

La politica continua a discutere sull’opportunità di ratificare il nuovo Mes (Meccanismo europeo di stabilità) il prossimo 16 marzo, nel pieno dell’emergenza coronavirus anche, se questo è solo uno dei vari trattati internazionali sottoscritti dall’Italia che ne condizionano l’azione economica.

Il nostro paese ha sottoscritto la prima versione del Mes, nato per fare prestiti ad un tasso più basso rispetto a quello dei bond, nel 2012 ai tempi del governo Monti. Nella sua prima formulazione veniva prevista la possibilità di erogare prestiti ai membri della Ue, stabilendo all’articolo 8 che l’organismo incaricato di erogare questi fondi sarebbe stato composto dai ministri delle finanze di 17 paesi, ora 19, con un capitale di 700 miliardi di euro, cifra che però poteva subire modifiche in virtù dell’articolo 10.

L’articolo 5.6 prevedeva che ogni decisione fosse approvata all’unanimità ma sarebbero state valide anche le decisioni prese nonostante l’assenza di uno o più membri; ogni ministro infatti rappresenta un numero di voti proporzionale al capitale sottoscritto dal proprio paese e per approvare una decisione basta la presenza dei due terzi dei voti validi.

La riforma attualmente in attesa di ratifica prevede modifiche ad appena 4 articoli, su 48, lasciando al Mes il ruolo di “prestatore di ultima istanza” per quei paesi che non riescono a finanziarsi sul mercato emettendo bond. Con la riforma non sarà più il “Consigli di amministrazione” a decidere sui prestiti ma diventerà necessario che la richiesta venga accettata dopo che la Commissione europea e la Bce abbiano fatto un’analisi sulla sostenibilità del debito e sulla capacità del Paese di ripagare il prestito. Nel caso in cui Commissione e Mes fossero in disaccordo sull’analisi di sostenibilità, l’ultima parola spetterebbe comunque alla Commissione, che agisce come organo politico a differenza del Mes che è un’istituzione intergovernativa.

Con la riforma inoltre il Mes potrebbe svolgere il ruolo di mediatore tra uno Stato chiamato a ristrutturare il proprio debito e i creditori privati, ma solo su richiesta del Paese membro e in modo temporaneo e informale, quindi non vincolante. Altra importante modifica quella riguardante le Clausole di azione collettiva (Cacs) che ora prevede decisioni prese “a maggioranza” su tutti i titoli di Stato detenuti e non come avviene oggi per singola tipologia.

Altra novità del nuovo Mes la possibilità di alimentare con le proprie risorse il Fondo di risoluzione con cui le banche europee intervengono in caso di una crisi di liquidità, visto che le attuali regole comuni prevedono i meccanismi della ricapitalizzazione o del bail-in solo per le crisi di capitale.

Strettamente legato al Mes è il Fiscal compact o Patto di stabilità ratificato dal Parlamento italiano il 19 luglio 2012. Questo trattato impone al nostro Paese di tagliare per 20 anni 45 miliardi di debito pubblico all’anno, a cui vanno aggiunti i 15 che nell’arco del triennio andranno a finanziare il Mes. Qualora l’Italia, o qualsiasi altro stato, non riuscisse a raggiungere questo scopo sarebbe vessata da tutta una serie di sanzioni con multe che potrebbero arrivare fino all’0,1% del Pil (Prodotto Interno Lordo).

Non solo quelli europei, visto che in un mondo sempre più globalizzato sono vari i trattati cui l’Italia potrebbe a breve doversi adeguare, tra questi i principali sono Il Ceta, il Tisa e il Ttip.

Il Ceta, o Accordo economico commerciale globale, prevede un accordo commerciale di libero scambio tra l’Unione europea ed il Canada già in vigore dal settembre 2017 anche se ancora deve essere ratificato da tutti i paesi membri.

Nello specifico questo trattato prevede in partricolare l’eliminazione di gran parte delle tariffe doganali tra le parti, la possibilità per tutte le imprese dei paesi aderenti di partecipare alle rispettive gare di appalto pubblico e la tutela del marchio di alcuni prodotti agricoli e alimentari tipici, clausola questa fortemente richiesta dagli agricoltori europei e che rappresenta una delle parti più lunghe e difficili del negoziato.

Una delle principali criticità sul Ceta è rappresentata dalle perplessità legate agli standard canadesi inferiori rispetto a quelli europei ed un’economia agricola che dipende in modo più massiccio da additivi chimici e ogm.

Più complesso invece il Ttip, Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, un accordo commerciale di libero scambio tra Usa ed Europa i cui negoziati sono iniziati nel 2013. L’obiettivo di questo trattato è quello di integrare i due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in una vasta gamma di settori le barriere non tariffarie, ossia le differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie. Ciò renderebbe possibile la libera circolazione delle merci, faciliterebbe il flusso degli investimenti e l’accesso ai rispettivi mercati dei servizi e degli appalti pubblici.

A livello geopolitico una volta ratificato l’accordo si realizzerebbe la più grande area di libero mercato al mondo capace di generare circa un terzo del commercio mondiale e la metà del Pil globale.

Questo accordo però prevede anche l’introduzione di due organismi tecnici potenzialmente molto potenti e fuori da ogni controllo da parte degli Stati e quindi dei cittadini. Il primo, un meccanismo di protezione degli investimenti (Investor-State Dispute Settlement – ISDS), che consentirebbe alle imprese italiane o USA di citare gli opposti governi qualora democraticamente introducessero normative che ledessero i loro interessi passati, presenti e futuri.

Un altro organismo di cui viene prevista l’introduzione è il Regulatory Cooperation Council: un organo dove esperti nominati della Commissione UE e del ministero USA competente valuterebbero l’impatto commerciale di ogni marchio, regola, etichetta, ma anche contratto di lavoro o standard di sicurezza operativi a livello nazionale, federale o europeo. A sua discrezione sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile. A sua discrezione sarebbe valutato il rapporto costi/benefici di ogni misura e il livello di conciliazione e uniformità tra USA e UE da raggiungere, e quindi la loro effettiva introduzione o mantenimento.

Altro trattato in discussione a livello comunitario il Tisa, Accordo sugli scambi di servizi, ed è un accordo commerciale, attualmente negoziato tra 23 membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), tra cui l’UE. Questo si basa sull’accordo generale dell’Omc sugli scambi di servizi (GATS), sottoscritto da tutti i membri dell’Omc. La sua importanza per la Ue è altissima dal momento che l’Europa è il principale esportatore mondiale di servizi, un settore che conta decine di milioni di posti di lavoro in tutta Europa. Facilitare le esportazioni di servizi da parte delle imprese europee significa garantire la crescita e l’occupazione nell’UE. Viceversa, permettendo alle imprese dei paesi extra-UE di offrire i loro servizi in Europa, dovrebbe aumentare la scelta e diminuire i prezzi, con vantaggi per le imprese e i consumatori.

La sua esistenza divenne di pubblico dominio nel giugno 2014 quando Wikileaks divulgò le bozze di un nuovo accordo sui servizi che fino a quel momento era stato tenuto segreto dai paesi che vi stavano lavorando; il testo infatti era stato discusso in segreto a Ginevra per due anni e le parti avevano il divieto assoluto di rivelarne il testo, questo sarebbe dovuto rimanere riservato fino a cinque anni dopo la sua approvazione.