Fabrizio Di Ernesto

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Monthly Archives: aprile 2017

Libri. Il Fascismo della Repubblica sociale a processo, di Alberto Mandreoli

Cosa accadde ai gerarchi fascisti della Repubblica sociale al termine della guerra civile che insanguinò il nord Italia? Prova a rispondere a questa domanda Alberto Mandreoli nel suo saggio “Il Fascismo della Repubblica sociale a processo – sentenze e amnistia (Bologna 1945-1950)” pubblicato dalla casa editrice “Il pozzo di Giacobbe”.
Il libro risulta una raccolta molto minuziosa del materiale processuale prodotto a Bologna subito dopo la fine della guerra cercando anche di ricostruire in modo preciso come si arrivò ai fatti che poi portarono ai processi di figure più o meno importanti della Rsi.

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Da Filippine no a Russia per installazione base militare

Le Filippine non permetteranno alla Russia di installare una base militare sul loro territorio poiché una simile eventualità è in contrasto con la costituzione di Manila.

Lo ha affermato il ministro della Difesa filippino Delfin Lorenzana, commentando l’esito della sesta conferenza sulla sicurezza internazionale, conclusasi a Mosca e tenutasi dal 26 al 27 aprile che aveva come tema principale la lotta al terrorismo.

A marzo, il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte ha permesso l’accesso delle navi russe nelle acque territoriali del paese mentre a gennaio aveva espresso l’auspicio che Mosca potesse diventare un alleato di Manila.

Durante la Guerra fredda, e nel momento di massima espansione, l’Urss aveva appena 16 servitù militari sparse per il mondo; dopo la dissoluzione dell’impero ne sono rimaste in funzione solamente due, peraltro di modesta entità, anche se di notevole importanza: Tartus in Siria, uno dei motivi per cui Putin ha sempre evitato azioni militari Nato e statunitensi nel paese, e quella di Sebastopoli, in Crimea, sul Mar Nero.

Negli ultimi anni il Cremlino ha valutato la possibilità di riaprire, o quanto meno utilizzare congiuntamente con i governi locali, gli ex presidi navali di Cam Ranh in Vietnam, Lourdes nell’isola di Cuba, chiuso nel 2001 dallo stesso Putin, e perfino una alle Seychelles, che nell’Oceano indiano rappresentano un vero e proprio avamposto russo visto che da anni è sotto l’influenza di Mosca; nel 1981 la Marina sovietica ha aiutato il governo ad evitare  un colpo militare e prima del crollo dell’Urss i russi vantavano una costante presenza nell’area.

All’inizio del suo primo mandato presidenziale Putin aveva disposto la dismissione delle basi ancora attive, sia per motivi economici sia per mostrare al suo omologo a stelle e strisce, all’epoca Bush jr., la volontà di chiudere una volta per tutte l’epoca della Guerra fredda. Washington però ha approfittato di quel momento di debolezza per aumentare le proprie servitù militari, soprattutto sulla frontiera orientale. In quest’ottica il vertice Nato svoltosi in Galles nel settembre 2014 ha ribadito la volontà di blindare ancora di più la frontiera con la Russia, con cinque nuove basi in Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, e Romania anche se, almeno stando a quanto dichiarato da Obama, queste nuove installazioni non saranno permanenti, pur avendo a disposizioni mezzi di aviazione, navali, depositi ed arsenali aggiornati con tutte le ultime novità in materia.

Nuove basi russe potrebbero sorgere in Sud America, ad esempio in Venezuela ed in Nicaragua, oltre che nella regione asiatica in paesi come l’Ossezia del sud, l’Abkazia, il Kirghizistan, dove già si trovano militari russi, ed il Tagikistan, altra nazione dove la presenza di militari dell’ex armata rossa è particolarmente numerosa. Alla fine del 2014 inoltre c’è stato il dispiegamento di un nuovo reggimento dell’aviazione in Bielorussia.

Il Venezuela abbandona l’Osa

Dalle parole ai fatti: il Venezuela ha deciso di abbandonare l’Organizzazione degli Stati americani (Osa) in segno di protesta dopo che la stessa Osa aveva convocato una riunione per discutere della crisi in atto a Caracas.

L’annuncio è stato dati dal ministro degli Esteri di Caracas, Delcy Rodriguez. La politica venezuelana ha detto: “L’Osa ha insistito con le sue azioni intrusive contro la sovranità della nostra patria e dunque procederemo a ritirarci da questa organizzazione”, ribadendo che la condotta venezuelana è dettata dalla “diplomazia bolivariana della pace”

In Venezuela si registrano molte tensioni. Da una parte ci sono infatti gli scontri nella capitale Caracas, frutto delle proteste dell’opposizione contro il governo e le forze di sicurezza, dall’altra le violenze dei manifestanti nelle altre città del paese nel tentativo di provocare la reazione e la repressione del governo.

Ad oggi negli scontri in tutto il paese sono morte 28 persone

Nonostante la decisione di Caracas ha Washington si è svolta ugualmente la riunione del Consiglio permanente dell’Osa, per discutere un progetto di risoluzione attraverso il quale convocare un vertice dei ministri degli Esteri per trattare la crisi in Venezuela. L’iniziativa è stata approvata con 19 voti a favore, 10 contrari, una astensione e un assente.

Da parte sua il Venezuela ha convocato un vertice straordinario di ministri degli Esteri della Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), che si svolgerà il prossimo 2 maggio a San Salvador.

Messico, muro statunitense atto ostile

Il muro degli Stati uniti al confine con il Messico non è solo una cattiva idea ma rappresenta anche “un atto ostile”. Lo ha detto il ministro degli Esteri messicano Luis Videgaray. Parlando della recinzione al confine tra i due stati che Donald Trump vorrebbe prolungare e rinforzare il rappresentante di Città del Messico ha poi spiegato che difficilmente Washington raggiungerà gli obiettivi che si è prefissata con il muro, ovvero diminuzione dell’immigrazione e della delinquenza, ribadendo che nonostante le continue richieste di Trump il Messico non intende pagare per il muro.

Lunedì scorso Trump era tornato a chiedere al Messico di contribuire alla realizzazione del muro precisando di essere disposto ad aspettare anche fin dopo l’estate.

Parlando con i parlamentari del suo paese Videgaray ha spiegato che se gli Usa andassero avanti con la costruzione della recinzione potrebbero esserci ripercussioni sia sulla cooperazione economica che su quella per la sicurezza tra i due paesi, anche perché attualmente “i colloqui in materia di immigrazione e commercio non stanno andando secondo le nostre aspettative”.

La barriera tra Usa e Messico detta anche muro messicano o muro di Tijuana, è una barriera di sicurezza costruita lungo il confine tra i due paesi. La sua costruzione ha avuto inizio nel 1990 durante la presidenza George Bush quando la polizia di frontiera elaborò allora la strategia “Prevenzione attraverso la Deterrenza”, in base a cui, tra le altre cose, iniziò a costruire recinzioni e ostacoli sul confine, in particolare nell’area di San Diego. Il primo tratto, di 14 miglia (22,5 km), fu completato nel 1993.

Nel 1994 durante la presidenza di Bill Clinton la barriera fu sviluppata ulteriormente. L’iniziativa più evidente fu quella di aggiungere una presenza fissa di forze di polizia al confine.

La barriera è fatta di lamiera metallica sagomata, alta dai due ai quattro metri, e si snoda per chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego. Il muro è dotato di illuminazione ad altissima intensità, di una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, connessi via radio alla polizia di frontiera statunitense, oltre ad un sistema di vigilanza permanente effettuato con veicoli ed elicotteri armati.

Rousseff, ritorno al neoliberismo pericolo per democrazia in America latina

L’America latina sta tornando al neoliberismo e questo mette a rischio la democrazia nella regione Indio-latina. Lo ha detto il presidente brasiliano Dilma Rousseff, destituita dalla magistratura carioca.

Parlando dal Messico l’ex presidente sudamericano ha detto che un ritorno al passato nella regione “sarebbe molto grave per la democrazia e la lotta alla corruzione”. Questo ha spiegato “non è un problema che riguarda solo il Brasile, in tutta l’America latina è in atto un processo di ritorno al neoliberismo”.

In merito alle vicende che hanno portato alla sua decadenza per via giuridica ha spiegato “la causa principale del mio impeachment è stata quella di riportare il Brasile sulla strada del neoliberismo. Sono stata sconfitta da un colpo di Stato, finché nel paese c’è stata la democrazia ho sempre vinto”.

Parlando poi dei 13 anni in cui ai vertici del Brasile sono stati prima il suo mentore Inácio Lula da Silva e poi lei ha osservato che le loro politiche economiche hanno portato il paese ad ottenere grandi risultati, tanto che era diventata una delle nazioni con le maggiori riserve monetarie al mondo, ad avere un tasso di disoccupazione molto basso ottenendo ottimi risultati anche nel contrasto alla fame ed alla povertà.

La Rousseff ha anche respinto l’etichetta di populista con cui oggi a sinistra si tende ad etichettare i governi che puntano a fare gli interessi dei cittadini, ammonendo i brasiliani che “il colpo di Stato è ancora in atto e di conseguenza sono a rischio anche le elezioni del prossimo anno”, che potrebbero vedere anche il ritorno di Lula.

Difesa, spesa in aumento in Italia dell’11 per cento. Crescita anche a livello globale

La crescita per la spesa militare in Italia è aumentata dell’11 per cento tra il 2015 ed il 2016, confermando un trend globale. Lo riferisce l’annuale rapporto del Sipri, Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). L’aumento italiano è però di circa 5 volte superiore a quello degli altri paesi europei dove la crescita si attesta intorno al 2,5.

Secondo l’istituto svedese a livello mondiale le spese militari sono aumentate lo scorso anno di 1686 miliardi. Spese in aumento praticamente in tutti i continenti ad eccezione dell’America centrale, di quella caraibica e del Medio oriente, anche se l’istituto non ha avuto a disposizione i dati di tutti i paesi di quest’area.

Gli Stati Uniti rimangono il paese con le spese militari più elevate a livello annuale al mondo, con una crescita dell’1,7 per cento tra il 2015 e il 2016 attestandosi a 611 miliardi di dollari. Dopo gli Usa la Cina, dove la spesa militare è aumentata del 5,4 per cento, toccando i 215 miliardi di dollari, un tasso di crescita notevolmente inferiore rispetto agli anni scorsi.

La Russia ha aumentato le spese del 5,9 per cento lo scorso, raggiungendo una quota pari a 69,2  miliardi di dollari, e diventando il terzo paese in termini di fondi investiti nel settore. Mosca ha superato l’Arabia saudita che ha diminuite le proprie spese militari del 30 per cento.

L’India ha aumentato la propria spesa militare dell’8,5.

Tra i paesi che hanno diminuito le spese militari si segnalano il Venezuela, che le ha ridotte del 56 per cento, e l’Iraq, dove il calo è stato del 36 per cento; più contenute le diminuzioni in Angola, Messico e Perù.

Russia e Turchia vicini ad accordo per fornitura S-400

Russia e Turchia sono vicini ad un accordo per l’acquisto da parte di Ankara del sistema di difesa missilistico S-400 di fabbricazione russa. Lo ha riferito lo stesso ministro della difesa turco Fikri Isik, che ha puntualizzato che pur essendo le parti molto vicine l’accordo finale non sarà siglato a breve.

Parlando nel corso di una conferenza stampa Isik ha riferito che la Turchia aveva contattato anche gli altri paesi Nato per la fornitura del sistema missilistico ma le offerte presentate non sono state ritenute adeguate alle esigenze di Ankara. In passato la Turchia aveva individuato nella Cina il partner per la fornitura di un sistema di difesa missilistico a lungo raggio per 3,4 milioni di dollari ma l’accordo era saltato nel 2015 a causa delle pressioni Nato che non volevano condividere con un paese non membro la propria tecnologia militare.

Dopo l’annullamento dell’accordo con pechino Ankara aveva ventilato la possibilità di realizzare un proprio sistema missilistico, lasciando però cadere poco dopo questa opzione.

Se l’accordo tra Ankara e Mosca dovesse essere finalizzato si aprirebbero scenari molto complicati per i due paesi e la Nato. L’Alleanza atlantica non permette che paesi non membri entrino in contatto con la propria tecnologia militare; alcuni analisti ipotizzano anche la possibile uscita della Turchia dalla Nato, uno scenario che però appare fantascientifico dal momento che, dopo tutti gli sforzi fatti da Washington per accerchiare militarmente la Russia, l’Alleanza atlantica lascerebbe scoperto il fianco sud-orientale in Europa, perdendo di fatto ogni argine nei confronti dei paesi medio-orientali, Iran in primis. Inoltre il rafforzamento dell’alleanza militare tra Turchia e Russia rischierebbe di rimescolare anche le carte in Europa, obbligando la Nato ad un riposizionamento di uomini e mezzi .

L’S-400 Triumph è un sistema d’arma antiaereo di nuova generazione sviluppato dall’azienda del settore difesa russa Npo Almaz, prodotto da Mkb Fakel, azienda di stato russa con sede a Khimki e esportato da Rosoboronexport.

Sarebbe un sistema d’arma molto superiore alla precedente serie S-300 ed in sue versioni per l’export è stato esportato in Cina; nel novembre 2014 Mosca e Pechino hanno firmato un accordo da 3 miliardi di dollari per la fornitura di sei battaglioni del sistema antiaereo/antimissile S-400 che permetteranno di rafforzare in modo significativo la difesa aerea della Cina. Inoltre in India è stato formalizzato l’interessamento che dovrebbe portare all’ordine di acquisto ufficiale di 12 sistemi durante una visita del primo ministro indiano in Russia nel dicembre 2015.

La Serbia punta alle armi russe

La Serbia punta ad acquistare armi dalla Russia o in alternativa dalla Bielorussia, paese politicamente e storicamente legato a Mosca.

È stato lo stesso primo ministro Aleksandar Vucic ad informare dell’esistenza di negoziati sia con il presidente russo Vladimir Putin sia con quello bielorusso Aleksandr Lukashenko. In particolare l’obiettivo di Belgrado sarebbe quello di acquistare due divisioni di sistemi missilistici terra-aria S-300 di produzione russa da Mosca o in alternativa da Minsk.

Informando delle trattative in corso Vucic ha detto: “”Per noi sarebbe di vitale importanza avere due divisioni di S-300 e un posto di comando di reggimento, che sarebbe una soluzione per diversi anni”, pur precisando che per il momento il raggiungimento di un accordo è distante.

Già nello scorso gennaio Il ministro della Difesa di Belgrado, Zoran Djordjevic, aveva annunciato la volontà da parte della Serbia di acquistare i sistemi missilistici S-300.

Gli S-300 sono una serie di sistemi missilistici terra-aria a lungo raggio realizzati in Unione sovietica prima e in Russia poi a partire dall’S-300P, la versione base. Prodotti dalla NPO Almaz sono stati sviluppati per contrastare i velivoli ed i missili da crociera nemici. Versioni successive sono efficaci anche contro i missili balistici. Dal 1993, questi missili sono prodotti congiuntamente dall’Almaz con la sudcoreana Samsung.

Il sistema S-300 venne schierato per la prima volta nel 1979 in Unione Sovietica per la difesa dei grandi centri industriali ed amministrativi, di basi militari, oltre che per il controllo dello spazio aereo nazionale.

La responsabile dello sviluppo dei sistemi S-300 è la già citata azienda russa Almaz, di proprietà del governo (conosciuta anche come KB-1), che è parte della Almaz-Antei. I missili utilizzati da questi sistemi antiaerei sono stati sviluppati dall’ufficio tecnico “Fakel”, una distinta azienda governativa nota anche come OKB-2.

L’S-300 è considerato uno dei più potenti missili antiaerei oggi disponibili. I suoi radar sono in grado di inseguire circa 100 bersagli, potendo ingaggiarne 12/24/36. Esso è in grado di raggiungere una gittata di 150-200 o 300 km e può distruggere perfino i missili balistici. L’unità di comando si trova ad una distanza di 30–40 km dagli altri elementi del sistema di combattimento. I sistemi sono completamente automatici. Il tempo di dispiegamento di questo tipo è di cinque minuti. I missili S-300 rimangono sempre sigillati, e durante la loro vita operativa non necessitano di interventi di manutenzione.

Il piano Condor: il Cile nel sistema repressivo statunitense

Piano Condor è il nome in codice di un’operazione di repressione organizzata dalle dittature militari dell’America del Sud per dare la caccia ed eliminare fisicamente gli oppositori di sinistra.

In particolare, come Piano Condor veniva denominato il coordinamento delle operazioni dei servizi segreti dei regimi nella regione indio latina negli anni ’70, nell’ambito del quale la Dina, la polizia segreta di Pinochet, ebbe un ruolo da protagonista; stando a quanto si apprende oltre al Cile parteciparono a queste operazioni anche reparti speciali di Argentina, Uruguay, Brasile, Paraguay e Bolivia.

Una prima riunione di lavoro dei servizi segreti implicati nell’operazione si tenne a Santiago tra il 25 novembre ed il I dicembre del 1975 per iniziativa del fondatore della polizia segreta del generale Pinochet, Manuel Contreras. Inutile dire che questo sistema beneficiò del sostegno di agenti statunitensi.

Un rapporto della Cia del 1978 definiva infatti il Piano Condor come “uno sforzo di cooperazione tra i servizi di informazione e di sicurezza all’interno di numerosi paesi del Cono sud dell’America latina per combattere il terrorismo e la sovversione”.

Brasile, Lula pronto a candidarsi alle presidenziali 2018

Luiz Inácio Lula da Silva, già presidente del Brasile dal 2003 al 2011 è pronto a candidarsi alle presidenziali del 2018. È stato lo stesso politico di Caetes a ventilare questa possibilità dichiarando che una sua eventuale nuova discesa in campo “rende i suoi avversari molto nervosi”.

Lula ha spiegato che i brasiliani rimpiangono lo sua presidenza, specie dopo il recente colpo di stato che ha tolto la presidenza alla sua pupilla Dilma Russeff.

Recenti sondaggi vedono una candidatura di Lula nettamente vincente su tutte le altre anche se questa non è ancora stata ufficializzata.
“I miei avversari – ha sottolineato – sono molto nervosi. Sono tre anni che mi attaccano eppure continuo ad essere in testa in tutti i sondaggi”. In merito poi alle accuse di corruzione mossegli dai suoi avversari non solo ha ribadito al sua innocenza e la sua estraneità ai fatti sottolineando “per essere imprigionati bisogna aver commesso un qualche reato e la giustizia deve avere le prove adeguate per condannarlo”.

Quando Lula nel 2002 vinse le elezioni presidenziali c’erano grandi attese intorno al suo nome anche se ben pochi potevano affermare di conoscerlo e soprattutto di poter anticipare le sue mosse.

Uno in particolare era l’interrogativo che assaliva i brasiliani e la gran parte degli osservatori internazionali: il nuovo presidente sarebbe stato il Mandela brasiliano o il novello Allende di un cupo futuro sudamericano?

Di umili origini, nonostante ciò lui ex lustrascarpe, figlio di uno scaricatore di sacchi di caffè, alfabetizzato solo a dieci anni e con un dito mozzato sotto la pressa di un’acciaieria è diventato l’uomo più importante di una delle maggiori potenze economiche mondiali.

Durante la campagna elettorale per la sua prima elezioni i suoi detrattori puntavano l’indice sulla sua inesperienza dal momento che non aveva mai amministrato neppure un paesino dell’arido “serto”. Lui però non si scomponeva minimamente e replicava molto semplicemente: “qual era l’esperienza di Mandela dopo 27 anni di prigione? Eppure non appena è uscito è stato eletto presidente e si è trasformato nel maggior statista della storia sudafricana. E sapete perché? Perché il problema del governo non è amministrativo, trovi sempre amministratori della più alta competenza. Il problema è eminentemente politico: il Brasile ha bisogno di un dirigente”.

I grandi investitori internazionali, quelli atlantici in primis, alla vigilia dell’elezione di Lula erano molto critici e spaventati considerandolo nulla più che un semplice “spauracchio neoliberista” tanto che per contrastarlo avevano perfino creato un “lulometro” per innalzare il rischio Brasile di pari passo con la sua ascesa nei sondaggi pre-elettorali.

Le aspettative che hanno accompagnato la sua ascesa sono state molte, quasi quante le sue promesse elettorali. Lula aveva chiesto il voto ai brasiliani annunciando una crociata contro la piaga della fame, passaggio epocale dal neoliberismo delle privatizzazioni verso un modello economico basato sulla produzione nazionale, una progressiva riduzione del tasso d’interesse, che all’epoca risultava essere il più alto del mondo; istruzione, assistenza sanitaria e previdenza sociale per tutti i cittadini, realizzazione della riforma agraria e rilancio del progetto del Mercosur in contrapposizione al progetto statunitense dell’Alca, anche perché nel primo il Brasile può esercitare una pesante influenza.

Una volta eletto Lula riuscì lentamente a dare seguito alle sue promesse, giovandosi anche dei risultati che il pesante Piano Real varato nel 1994 e che, tra le altre cose, introduceva la nuova moneta, il Real appunto, al posto dello svalutatissimo Cruzeiro, stava permettendo di raggiungerne anche se per il momento i risultati avevano avvantaggiato soprattutto gli speculatori ed i grandi investitori, nonostante qualche piccolo vantaggio ottenuto anche dai comuni cittadini.

In soli dieci anni i risultati ottenuti erano stati sorprendenti, tanto che nel 2004 l’inflazione, che Lula aveva promesso di abbassare al 6,4%, era già scesa al 4,5%. Il Paese inoltre riusciva senza problemi a pagare puntualmente, se non addirittura in anticipo, il proprio debito estero e dopo un solo anno di cura Lula l’economia brasiliana registrava un’eccedenza della bilancia commerciale di quasi 20 miliardi di dollari, un bilancio positivo per il quarto anno consecutivo, che aveva permesso al Pil di cresce di oltre quattro punti percentuali. Numeri che avevano consentito a Lula di far diminuire in due anni di oltre il 10% il numero di coloro ancora costretti a vivere sotto la soglia della miseria.

A far da traino all’economia brasiliana soprattutto le esportazioni che sotto Lula hanno conosciuto un vero e proprio boom grazie principalmente al Bndes, la principale banca di sviluppo locale.

In appena 24 mesi, di cui più della metà vissuti in stagnazione e sfruttati da Lula per tranquillizzare i mercati internazionali con una gestione economica e finanziaria al limite del conservatorismo, e del tutto ossequiante ai dettami del Fondo Monetario Internazionale, l’export era aumentato del 55%; un risultato ottenuto grazie al boom dell’agrobusiness con il Paese al vertice per quanto riguarda la soia, il granturco, le arance ed il caffè, solo per citare i prodotti più reclamizzati.

Uno dei grandi successi politici di Lula è stato sicuramente quello di aver spalancato al suo paese le porte del mondo arabo. Nel 2003 ha infatti realizzato un imponente tour tra Siria, Libano, Emirati arabi uniti, Egitto e Libia in cui ha intrecciato proficue relazioni commerciali rafforzate due anni più tardi in un summit tenutosi a Brasilia che ha visto come protagonisti i paesi dell’America latina e quelli della Lega araba; nell’occasione venne firmato un accordo quadro di cooperazione economica tra il Mercosur ed il Ccg, il consiglio di cooperazione del golfo.

In una successiva riunione tenutasi pochi mesi più tardi a ar-Riyad vennero successivamente approvati i termini di riferimento di un accordo di libero scambio sempre tra i due organismi.

Grazie a Lula è inoltre aumentata l’influenza brasiliana in Africa, durante il suo primo mandato infatti non solo hanno iniziato a proliferare ambasciate e consolati carioca nel Continente nero ma lui stesso ha più volte visitato quei paesi.

Alla scadenza del secondo mandato ha lasciato alla sua pupilla Dilma Rousseff un Paese migliore di quello che aveva trovato, con il tasso di disoccupazione sceso al 7%, miglioramenti sono stati registrati anche nel tasso di alfabetizzazione ormai vicina al 90%, dove la vita media si è allungata durante il suo mandato di ben 10 anni, e con un tasso di mortalità infantile calato di ben 20 punti percentuali.